“Siamo come nani sulle spalle di giganti”, diceva il filosofo francese Bernardo di Chartres vissuto nella prima metà del XII secolo: “così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.
Se era vero per gli uomini del XII secolo lo è certamente per noi del XXI nei confronti di quei giganti del nostro Rinascimento di cui Raffaello è uno dei personaggi più illustri, denominato “Magister” ad appena 17 anni intriso fin dai primi anni di vita nel clima umanistico della ricca corte di Guidobaldo da Montefeltro.
Non abbiamo nessuna possibilità di confronto sul piano della manualità.
Solo attraverso uno studio per sottrazione possiamo tentare di riscoprirci a loro debitori.
Pensando a quegli uomini che aderivano fedelmente al postulato pitagorico: “tutto è numero” ispirato a Platone e ai neoplatonici e col sostegno di una lunga serie di teologi come Agostino, persuasi della struttura matematica e armonica dell’universo, mi sono lasciato sedurre dalla forma del cerchio.
A questo punto non potevo che prendere in considerazione il numero “aureo” della successione di Fibonacci (1,6180339887) che in epoca rinascimentale può essere ascritto a un libro: il “De Divina Proportione” di Luca Pacioli (pubblicato a Venezia nel 1509 e corredato di disegni di solidi platonici di Leonardo da Vinci), nel quale si divulgava a una vasta platea di intellettuali l’esistenza del numero e di alcune delle sue numerose proprietà, fino ad allora appannaggio soltanto di una più ristretta cerchia di specialisti.
L’arte come strumento di conoscenza dunque, di scienza come scienza è considerata l’arte del costruire, l’architettura, dove ciascuna parte dell’edificio, all’interno come all’esterno, deve interagire come unico e identico sistema di rapporti matematici, questa convinzione, intrisa di spirito religioso, è fondamentale per gli artisti rinascimentali.
Sappiamo che Raffaello collaborò con il suo amico Marco Fabio Calvi (letterato appartenete ad una famiglia di Ravenna già imparentata con Leone X) ad una traduzione italiana del testo di Vitruvio, traduzione purtroppo non pubblicata.
Ora non potevo non pensare al suo progetto per la chiesa di Sant’Eligio degli orefici a Roma, in cui, per il candore immacolato, l’austerità delle forme e l’astratta chiarezza dello schema geometrico combina l’espressione del sentimento religioso del Rinascimento con quello della Controriforma (misura volta al rinnovamento spirituale e teologico con la quale la chiesa cattolica riformò le proprie istituzioni dopo il concilio di Trento)
Come l’uomo è immagine di Dio e le proporzioni del suo corpo sono state concepite e fissate dalla volontà divina, così le proporzioni compositive delle immagini e dell’architettura le devono comprendere in sé ed esprimere l’ordine cosmico.
Si capisce bene che questi presupposti non permetto altro che una laica sintesi rappresentata simbolicamente dal mio disco bombato che misura tre volte il numero aureo e realizzato con una lastra in mokume-gane (tecnica metallurgica giapponese del XVII sec.) in questo caso particolare con una lega composta da rame e argento fino (Shibuichi) che mi ha permesso di ottenere due fondamentali risultati: un primo, sobrio, effetto cromatico che scaraventa l’osservatore in un mondo onirico e surreale a sottolineare la distanza non solo temporale nei confronti del grande maestro. Il secondo, non meno importante effetto ricercato, consiste nell’uso stesso della tecnica adoperata, tecnica metallurgica estranea alla nostra tradizione artigianale ma proprio per questo paradossalmente mi unisce al lavoro di continuo studio e ricerca di quei giganti.
Il disco bombato rifinito nella sua circonferenza con una cordella in argento 925, questa sì appartenete alla nostra cultura e tradizione orafa Romana, è tenuta da un filo in argento che per la sua funzione di giro collo, accenna ad una spirale che termina con una perla bianca pendente che ci ricorda il dipinto: “ La donna velata” esempio del suo periodo fiorentino trascorso tra il 1504 e il 1508 dove a contatto di artisti del calibro di Michelangelo e Leonardo, realizzò opere che affascinarono Firenze e che portarono Giorgio Vasari a scrivere: “Studiando le fatiche de′ i maestri vecchi e quelli de′ i moderni, prese da tutti il meglio e fattone raccolta, arricchì l’arte della pittura di quella intera perfezione che ebbero anticamente le figure di Apelle e di Zeusi”.
Raffaello è stato artefice di una straordinaria sintesi tra la pittura fiamminga e le nuove istanze rinascimentali fondate sulla riscoperta dell’antico mondo classico attraverso lo studio filologico e analitico usando come strumento principale il disegno, creando soluzioni assolutamente inedite ha scolpito nel Pantheon dell’arte un modello al quale non si può non fare riferimento.
Così il cerchio si chiude, riportandoci alla nostra epoca, priva di punti di riferimento stabili, epoca inquieta e disillusa al tempo stesso, come la morte di Raffaello rappresenta la fine di un’epoca, la fine delle grandi botteghe d’arte e la fine del Rinascimento, che lasciò tutti sgomenti quasi ad anticipare la catastrofe del sacco di Roma del 1527, solo sette anno dopo, noi rimaniamo angora preda inconsapevole di quello sgomento.